Prender(si) cura.

cura s. f. [lat. cūra]. – 

1.a. Interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività.

ed è così. da sempre, per sempre. quando ho qualcosa per le mani, di cui mi importi, me ne prendo cura. e non importa cosa ci guadagni. non importa nemmeno che quella cosa – oggetto, lavoro, vita – sia mio. me ne prendo cura, in automatico. mi hanno insegnato così: ad avere cura delle cose, delle persone, delle vite. a fare tutto con impegno, a salvare il mondo. con tutto l’impegno possibile. a dare sempre il massimo. ed è questo oggi ciò che sono. è la cosa che ho imparato a fare meglio: dare il massimo. il massimo di me. e di tutto quello che ho. fino a raggiungere l’obiettivo, superarlo, migliorarlo. fino a alla fine di ogni risorsa, a superarla, a devastarla. sono abituata così. la frase ambivalente “non importa il risultato, importa solo che tu faccia del tuo meglio e che arrivi al tuo massimo” applicata a me è distruttiva. sarà per la mancanza di soglia del dolore. sarà per l’estremo perfezionismo, per il mio essere una visionaria senza posa, con lo sguardo sempre appoggiato al futuro, al tempo che rimane, a ciò che si può ancora fare, a ciò che si poteva fare, alla versione migliore di quella migliore di quella migliore… Sono consapevole che molti dei miei studenti prenderebbero il ” non importa il risultato” come un modo per rendere il minimo possibile. Io invece mi sfinisco. Rincorro perfezioni. Macino energie, perchè so di averne. Le sento. Sono un’eruzione ininterrotta. E’ come se sotto i miei piedi ci fosse un canale vulcanico, che me le porta e me le mette tra le mani, continuamente, senza sosta, senza mai diminuire, direttamente dal centro della terra. Anche se, a volte, crollo.

b. Riguardo, attenzione, avere riguardi per sé stesso, e soprattutto per la propria salute

Ed ecco il punto. Lancinante. Forse quelle energie non sono infinite. O forse sono infinite, ma non lo è il mio corpo. Che, irrispettosamente, a volte si ferma. Sempre più spesso ormai, quasi ogni giorno. Si ferma, mi ferma, eppure sotto continua a ribollire. E non trovo pace. C’è qualcosa che non va, tra il fiume di lava che sento arrivare e lo strumento che ho per usarlo. E come l’edificio vulcanico che la lava è andata lentamente costruendo e fortificando negli anni, prima o poi crollo.

e. Oggetto costante (costituito da persone o cose) dei proprî pensieri, delle proprie attenzioni, del proprio attaccamento

Mi prendo cura di tutto. Tranne di me stessa.

Art: (c) Dario Gi
https://dariogi.blogspot.com/

Ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona.

Che tu sia per me il coltello, David Grossman

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